Monti sibillini

I MONTI SIBILLLINI

Tavola del giorno II del mese III dell’anno di V.·. L.·. 6005

“Che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!”

(Giacomo Leopardi, Le Ricordanze, vv 21-24)

 
Guido Piovene pubblicò nel 1957 il “Viaggio in Italia”. Possiamo apprezzarne tuttora le acute osservazione e le felici, penetranti intuizioni.
Lo scrittore descrive i Sibillini come monti leggendari dell’Italia centrale e ricorda che nella grotta della Regina Sibilla nacque la leggenda del Guerin Meschino. Menziona anche le favolose fioriturie primaverili, le più belle d’Italia.
L’asprezza del suolo trivellato da fenomeni carsici, solcato da torrenti impetuosi, battuto da forti venti fanno del Parco dei Sibillini una delle realtà più affascinanti dell’Umbria e delle Marche. Qui nacquero, nei secoli passati infinite leggende animate da fate, stregoni, negromanti e creature fantastiche.
I versi di Leopardi sottintendono il rapporto emotivo profondo del poeta e grande letterato con il mondo evocato dal disegno, imponente e bellissimo, delle montagne umbro-marchigiane. I Monti Sibillini delineano, all’orizzonte che si scorge dal colle dell’Infinito, a Recanati, un profilo suggestivo e carico di mistero, che sfuma nei Monti della Laga.
“Monti azzurri … Arcani mondi …”
La denominazione delle località più note accese nel Medioevo la fantasia di avventurieri e letterati, non soltanto italiani, ben prima che il grande recanatese ne cogliesse il misterioso richiamo, espresso nelle “Ricordanze” con profondità e intensità ineguagliabili.

“Pizzo del Diavolo,Grotta del Diavolo , Gola dell’Infernaccio, Valle dell’Inferno,Valle scura, Passo Cattivo, Passo delle Streghe: questi nomi confermano l’alone di magia che circondava i “Monti azzurri”.
Tra le leggende scaturite in quei luoghi, due le più interessanti: il loro riferimento naturale è nella Grotta della Sibilla e nel Lago di Pilato.
Per analogie non del tutto casuali, la mente torna ai Campi Flegrei ed al Lago D’Averno. Chi ha letto i volumetti divulgativi o i trattati eruditi sul fiume Nera e sulla Valnerina sa che entrambi, il fiume e la vallata che da esso prende il nome, furono citati da Virgilio, Silio Italico e altri autori latini.
“Sulphurea Nar albis aquis …”
La Sibilla Appenninica richiamò l’attenzione di numerosi autori: Andrea da Barberino, Antoine de La Sale, Hemmerlin, Niccolò Pierantoni, Leandro Alberti.
L’Ariosto dedicò uno dei suoi versi armoniosi alle “nursine grotte”.
Chi era la Sibilla? Le interpretazioni degli studiosi divergono. Per alcuni, personificazione del male, strega, demoniaca rappresentazione di oscure e minacciose presenze, dedita alla conquista ed alla perdizione delle anime; per altri, figura benevola, disposta ad insegnare alle fanciulle del luogo, “le fantelle”, come ricamare il corredo, dopo essere discesa dalla dimora mitica ed impervia che la fantasia popolare le aveva attribuito nella notte dei tempi.
L’ ipotesi più convincente si trova nei testi del belga Desonay. Nel libro “Il paradiso della Regina Sibilla ” scrive che il mito della Maga va fatto risalire al culto pagano della Dea Cibele, la Magna Mater dei Romani, divinità delle montagne, dei laghi e delle fonti.
Il culto di Cibele fu introdotto dalla Frigia nel 204 a.C. Trovò ampia diffusione nelle vallate dell’Appennino centrale, e quindi in Valnerina e sui Sibillini.

Cibele era raffigurata come una Dea coronata: la grotta della Sibilla si apre sotto la corona di rocce del monte che da lei prese il nome .
La Sibilla e il Lago di Pilato furono oggetto di attenzione e di studi approfonditi da parte di scrittori stranieri (Gaston Paris, il finlandese Werner Soderhjelm, il francese Dubi, F Hemmerlin, il belga Desonay, già citato, il tedesco Pabst, la scandinava Marjatta Wis.) e dei cultori italiani della materia (Speranza, Febo Allevi, Ansano Fabbi, Domenico Falzetti, Amadio ,Vittori, Crocioni, Pio Rajna…)
Per Andrea da Barberino , autore del primo romanzo in lingua volgare, la Sibilla è la “Fata Alcina”. E’ a lei che si rivolge il Guerin Meschino per conoscere la verità sulle proprie origini. Il Guerino, orfano dall’ infanzia di entrambi i genitori, alla ricerca (simbolica?) della sua identità e delle sue radici, sale per gli aspri dirupi della montagna. Superati innumerevoli ostacoli, giunge alla porta della grotta, sovrastata da una scritta che riporta la mente ai versi dell’Inferno dantesco: “chi entra per questa porta e supera l’anno, non uscirà più…”. Il richiamo a un linguaggio familiare ai L.M. a me sembra evidente.
Introdotto alla presenza della maga, il cavaliere errante deve affrontare passaggi e prove che lo confrontano con i vizi capitali. Supera le tentazioni e i tranelli che la strega gli tende, pregando, per sette lunghi mesi. In quest’arco di tempo, soggiorna nella splendida dimora della fata Alcina , senza ricevere alcuna informazione sull’origine della propria famiglia e sui suoi genitori. Non cede alle lusinghe delle ancelle e della regina delle tenebre ed abbandona il luogo di perdizione nel quale ha trascorso mesi di solitudine, di incertezza e di dubbi. L’avventura si conclude con la vittoria sulle tentazioni e con il consolidamento della sua formazione di uomo e di cavaliere, ma la ricerca che lo ha condotto alla sommità della montagna incantata e nelle profondità della grotta non ha avuto risposta. La storia del Guerino era tra le più amate dalle popolazioni delle nostre montagne. Nel corso delle fiere ,nei mercati e durante le feste i “cantanbanchi” la narravano. La gente di montagna l’avrebbe ripetuta nelle veglie serali, accanto al fuoco, nel periodo invernale.
Altre leggende fiorirono intorno al Monte della Sibilla. Nel ‘300 Cecco D’Ascoli racconta che gli spiriti demoniaci scendevano di notte ,sotto forma di leggiadre fanciulle, per ballare con i giovani delle valli. Alle prime luci dell’alba dovevano risalire per la china del monte. Una volta, attardatesi troppo, si erano arrampicate di corsa lungo il fianco del Vettore lasciandovi le impronte dei loro zoccoli di capra sul sentiero che tuttora chiamiamo “la strada delle fate”.

Il francese De La Sale, nel “Paradis de la Reine Sibylle”, narra di essere salito nel 1420 sino alla grotta. Riferisce di non esservi entrato, sostando nel primo vano. Racconta di aver letto ,incisi nella roccia, due nomi: Herr Hans Van Bambourg e Thomin de Pons, ai quali avrebbe sovrapposto la sua firma. Il cavaliere angioino precisa nel suo scritto che malgrado avesse ottenuto il permesso delle autorità locali, non volle oltrepassare il primo vano. Il suo nobile nome non doveva essere macchiato dalla diceria di stregoneria e temerarietà.

Nel fantasioso romanzo viene riportata la storia di un giovane cavaliere francese avventuratosi sul monte e disceso nelle viscere della grotta per non uscirne più.
Qualche anno prima, sempre secondo le suggestive leggende nate intorno alla montagna incantata ,un giovane svizzero, Simplicianus, sarebbe entrato nella grotta per abbandonarla un anno dopo, recarsi a Roma ed implorare il perdono del Papa.
Ne parla Felix Hemmerlin in un volume scritto in lingua latina.
Il monte della Sibilla viene chiamato Venusberg (monte di Venere) perchè regno di Venere, moglie di Vulcano “che perpetuamente vi esercita il suo venereum officium non sine calore”.
Nel 1572 A. Oerth narra nel suo “Theatrum orbis terrarum” la vicenda del giovane Daniele, disceso nell’ antro del Monte di Venere e rimastovi per un anno. Uscitone pentito, si sarebbe recato a Roma, ma il Papa gli avrebbe negato il perdono. Disperato, Daniele ritornò nella grotta, per non uscirne più, senza sapere che nelle intenzioni del successore di Pietro c’era la volontà di costringerlo ad una più profonda riflessione e meditazione su se stesso e sugli errori compiuti.
La tragica vicenda di Daniele richiama la leggenda tedesca del Tannhauser, minnnesanger salvato dal sacrificio di una giovane donna innamorata.
Durante il cinquecento il mito della Sibilla sfiorisce gradualmente. Ne parleranno ancora Enea Silvio Piccolomini, illustre umanista e futuro pontefice con il nome di Pio II, che scriverà della grotta in un latino elegante e raffinato a suo fratello Giorgio; e ancora, Flavio Biondo, nell’opera “Italiae illustratae”, che descriverà i monti Sibillini “altissimi e inaccessibili”, la dove si apre l’antro della maga e parlerà del vicino lago che reca ancora il nome del procuratore romano in Galilea . Un piccolo lago glaciale orbicolare, brulicante di pesci (che altro non sarebbero ,nella fantasiosa descrizione dell’autore ,che demoni), meta di negromanti che vi salgono per consacrare agli spiriti del male il “Libro del comando”.

Giangiorgio Trissino, nel 1547, nel suo “l’Italia liberata dai Goti”, ricorderà nei suoi versi “la spelonca alta e profonda, della nostra antichissima Sibilla, a cui sogliono andar diverse genti.”
Dopo il 1500, le scalate al Monte Vettore diverranno più rare. Importanti, da allora, saranno solamente le escursioni a scopo scientifico.
Grandi artisti hanno dedicato alle Sibille ,dalla Cumana all’Eritrea, le loro opere.
Lo scultore marchigiano Pericle Fazzini, nel 1947, rappresenta la Sibilla dei suoi monti in un bronzo esposto al M.O.M.A. di New York. E’ una figura femminile nuda, seduta a terra con il capo reclinato sulle braccia raccolte intorno alle ginocchia piegate.
Nella Sala Consiliare del Comune di Visso, in 12 ovali su tela, sono raffigurate ad opera di un pittore del XVII secolo le Sibille. Con molta probabilità, la Sibilla che ha dato il nome ai “Monti azzurri” è la Sibilla Cumana.
Nel 1841 a Parigi, Richard Wagner scopre la storia del Tannhauser e la traspone in musica, componendo un’opera di straordinaria bellezza, rappresentata a Dresda (la “Firenze del Nord”) nello stesso anno e circa vent’anni dopo nella capitale francese.
Alcuni studiosi vollero vedere nel mito del cavaliere tedesco connessioni con quello della nostra Sibilla. Il Desonay, il Dubi e il Paris, sono convinti che il Tannhauser si ricolleghi al Guerin Meschino e al cavalier De La Sale. Soprattutto il Dubi scorge nello scritto di Hemmerlin il “trait d’union” tra la leggenda della Sibilla e la saga germanica: la prima sarebbe arrivata al nord tramite i pellegrini che da Roma risalivano verso l’Europa settentrionale.

I Grimm, nella storia “La bella addormentata”, raccontano nel 1876 del francese Lionello, che, ammaliato dai racconti sui Sibillini ,sale sino all’ingresso della grotta, vi penetra e preso d’amore per la Sibilla vi resta per lunghi anni. Ne uscirà un giorno, vecchissimo. Costernato per i peccati commessi, si recherà a Roma per chiedere perdono al Papa che glielo concederà solo se il suo bastone pastorale fiorirà. Disperato, Lionello trascorrerà nei fori della città antichissima e splendida, tra le rovine dei templi, gli archi e le colonne, tutta la notte in ansia. Solamente al mattino, con il fiorire improvviso del bastone pastorale, ritroverà la serenità e la consapevolezza del perdono concesso.
I miti dei tempi andati piacevano agli abitanti delle vallate di Castel Sant’ Angelo e delle sue frazioni, Nocelleto, Rapegna, Vallinfante (la Valle delle Fate), Gualdo (dal longobardo “wald”, bosco), Nocria (sede iniziale del feudatario del monte Efra, dall’ aramaico “Efraim”, eredità di antichi insediamenti degli istareliti rifugiatisi in Umbria dopo la distruizione del Tempio di Salomone ad Opera di Tito…) e Macchie, posta sotto il dirupo altissimo noto, ai pastori, come “Passo cattivo”. Questi, nelle lunghe veglie, nella solitudine dei pascoli della “Guaita Montanea”, termine nordico con il quale veniva definita nel medioevo tutta l’area di Castel Sant’Angelo sul Nera e i pascoli contigui a Castelluccio di Norcia, imparavano a memoria i passaggi salienti dei poemi cavallereschi e li recitavano a turno, immaginando un mondo popolato di creature fantastiche e di straordinarie avventure. Nell’opera di Torquato Tasso il giardino di Armida presenta analogie suggestive con la descrizione fantasiosa che la gente dei monti proponeva ai viandanti e ai pellegrini della dimora stregata della Regina Sibilla…
Altro luogo, fonte di innumerevoli leggende, è stato nel passato il Lago di Pilato.
Esiste a Lucerna, in Svizzera, un luogo che porta lo stesso nome e merita attenzione per le possibili affinità e per le correlazioni storiche con il piccolo specchio d’acqua, di origine glaciale, a quota 1940, situato nel baratro del Monte Vettore tra le due cime del “Pizzo del Diavolo” e la “Cima del Redentore”. Notate, a questo riguardo, la suggestione della lingua, che nei vocaboli e nella definizione dei luoghi evoca antinomie e contrasti simbolici di grande intensità.

Il lago ha una profondità di circa quindici metri e il perimetro di un chilometro. Non è più popolato da demoni ma da un piccolo crostaceo, il Chirocefalus Marchesoni, che prende il nome dallo scienziato che lo scoprì e che per primo ne individuò e ne descrisse le caratteristiche.
Il lago (quasi certamente chiamato così per la sua conformazione “orbicolare”) si vuole prenda il nome dal procuratore romano in Galilea, che la leggenda narra morto suicida, tormentato dal rimorso per aver messo a morte il Cristo.
Il suo corpo, deposto su un carro trainato da due bufali fu trasportato dagli animali che si lanciarono in una folle corsa verso il monte Vettore. La corsa si concluse quando, giunti sulla sommità del monte i bufali si gettarono nel laghetto in cui si inabissarono per sempre, tingendone di rosso le acque gelide.
Queste leggende secolari, arricchite dalla fantasia popolare, crearono un’atmosfera di demoniaca stregoneria, che ha contribuito a determinare suggestioni e fantasticherie incompatibili con un atteggiamento razionale e scientifico. Anche l’osservazione superficiale e il godimento meramente edonistico dei luoghi cui ho accennato si legano ben poco alle tradizioni dei posti che ho descritto. Molte leggende e i racconti che ho riportato ( con qualche imprecisione ed in modo molto sommario) richiamano un percorso iniziatico di formazione dell’individuo, la necessità del suo confronto con le “forze del male”, la sua capacità di attingere, maturando e crescendo, a risorse da lui stesso ignorate, insite nella sua persona. Le leggende e la tradizione popolare e letteraria del 1400-1500 sono convissute con un’intensa e profonda spiritualità, mutuata dalla tradizione benedettina della vicina Valle Castoriana.
L’Abbazia di S. Eutizio, a Piedivalle di Preci e altri antichi insediamenti monastici irradiarono cultura letteraria, religiosa e scientifica di altissimo livello (la nobile scuola chirurgica di Preci, non seconda a quella salernitana, soprattutto nella cura del cataratta e del “mal della pietra”). Francescani, Spirituali e Clareni, questi ultimi perseguitati da Bonifacio VIII e da Giovanni XII, trovarono in Castel Sant’ Angelo sul Nera rifugio e possibilità di espressione religiosa e culturale nell’accezione più ampia del termine.

Il piccolo borgo appenninico, più umbro che marchigiano per storia, caratteristiche strutturali, connotazioni linguistiche ed antropologiche, fu inoltre luogo caro alla tradizione templare, ricco di insediamenti dell’Ordine dei Monaci Guerrieri nell’Italia centrale. Essi offrivano alloggio, cure e protezione ai pellegrini e ai viandanti lungo la via che, quasi parrallela alla Francigena, li avrebbe portati a Roma o in Terra Santa. Eremi, “romitori”, conventi, chiese, pievi, sedi templari come il “domo” (dalla parola latina “domus”) della frazione di Nocelleto di Castel S. Angelo testimoniano il fermento e l’eterogeneità di un mondo affascinante e pieno di tradizioni scomparse.
Uno straordinario universo, ricco di suggestioni e di contraddizioni che affondano le radici nel mito. In quella terra di nessuno dove la storia sfuma nelle atmosfere magiche ed indistinte che solo chi ha imparato ad amare e conoscere dietro la superficie questi luoghi può comprendere e amare sino in fondo.

R.:L.: Resurrezione 144 all’Oriente di Civitanova. e lo spirito che la anima.

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R.·.L.·. RESURREZIONE 144