Overture, il flauto magico

UNA LETTURA IN CHIAVE MASSONICA: " IL FLAUTO MAGICO" DI W.A. MOZART
(RIFLESSIONI DI UN APPRENDISTA LIBERO MRAATORE)

Il passaggio dallo status di profano a quello di apprendista libero muratore, e quindi l’inizio della partecipazione agli architettonici lavori e la conseguente trasmissione – grazie agli insegnamenti dei Maestri, dei Compagni e di tutti i Fratelli – di alcune conoscenze iniziatiche precedentemente ignote, hanno determinato in me uno sconvolgimento molto forte al confronto con alcune realtà che, avendole già conosciute prima dell’iniziazione, sono tornate in contatto con me dopo questo essenziale passaggio.

Si entra in questo tempio “bussando da profano” alla sua porta e chiedendo “la luce”. Se per luce si intende un particolare altissimo risultato iniziatico, il percorso da compiere è lunghissimo e forse interminabile, e comporta una incessante attività di analisi, di studio e di “sintesi”.
Ebbene, se la luce che si chiede da bussante è l’“archè” che già secondo gli antichi filosofi greci era l’origine di tutte le cose e della vita, si tratta di un risultato al quale si potrebbe anche non giungere mai.
Ma la luce è anche uno strumento o un metodo, il metodo di chi – una volta ricevuta, e soprattutto praticata, l’iniziazione – valuta ciò che lo circonda alla stregua del lavoro, rituale e collettivo, svolto in loggia con i fratelli, e con tale criterio “illumina” la realtà.
Si può dire quindi che se massoni si è principalmente quando si lavora con i fratelli nell’officina, lo si rimane anche poi nel mondo profano portando dentro di sè i frutti del lavoro massonico e se possibile applicandoli alla realtà quali criteri direttivi della propria vita ed interpretativi del mondo, cercando in esso i segni dell’opera del G:.A:.D:.U:.
Se la intendiamo così, una prima – infinitesimale – porzione di questa luce da intendersi come metodo la si può ricevere già dopo l’iniziazione, e questo perchè necessariamente l’iniziato non riesce più a guardare le cose che lo circondano così come le guardava prima, una volta che ha messo piede consapevolmente in questo tempio.

Mi scuso della premessa, che peraltro è necessaria per potere bene chiarire che questa è soltanto una riflessione su alcuni aspetti de “Il Flauto Magico” (Die Zauberfloete) di W. A. Mozart (o meglio, solo di una sua piccola parte) che, trascurati o neppure rilevati prima dell’iniziazione, si sono “rivelati” dopo.
Illustri musicologi e critici teatrali hanno prodotto copiosissima letteratura ed ermeneusi di ogni genere, ed immancabilmente tutti hanno dato conto delle varie “simbologie” massoniche che compaiono nell’opera, intendendo per tale concetto (“opera”) il risultato di due distinte seppure connesse produzioni artistiche: il libretto – che non è di Mozart, anche se da esso fortemente rimaneggiato per ovvie ragioni di adattamento delle parole alla musica che lo stesso andava a scrivere, ma dell’amico e confratello massone Emanuel Schikaneder; e la partitura musicale, che invece come tutti sappiamo è di Wolfgang Amadeus Mozart.

In particolare, il Flauto Magico appartiene a quella particolare tipologia di composizione drammaturgica musicale denominata “singspiel”, caratterizzata dall’esecuzione di brani o parti integralmente musicali che si alternano con parti dialogate senza musica, che solo erroneamente si potrebbe ritenere un genere minore rispetto alla più paludata opera lirica, anche se probabilmente è corretto dire che si tratta di un genere più popolare e quindi adatto a temi meno aulici o solenni, o da rappresentarsi in teatri popolari (difficilmente Mozart avrebbe scritto “La Clemenza di Tito” in forma di singspiel); esisteva poi, già all’epoca di Mozart, un tipo di singspiel denominato Zauberoper (Opera magica) che trattava proprio tematiche favolistiche o comunque magiche.
Analoghi al singspiel (tipologia molto diffusa in verità in tutta Europa), sono la “zarzuela” spagnola (genere dal quale attinse Georges Bizet per la nota “Carmen”, di cui infatti esistono due versioni, una con le parti recitate ed una con tali parti arrangiate musicalmente, sia pure sempre come “recitativi”), ed anche per certi aspetti l’ “operetta” italiana.
Non si sente quindi certo – come si può immaginare – la mancanza di un’ennesima interpretazione, o meglio di un’ennesima ricerca tendente a scoprire ciò che compare nell’opera intesa come coacervo di musica e parole, anche perché personalmente non mi ritengo all’altezza di una seria e risolutiva analisi musicologica o teatrale, ed anche perché in realtà, come vedremo, di nascosto in questo senso c’è ben poco; in questo intervento, che posso al massimo considerare una incompleta bozza o proposta di riflessione, mi permetto di evidenziare ciò che la musica di Mozart mi ha suggerito dopo essere stato iniziato alla massoneria, ed a tal fine mi sembra opportuno porre i seguenti punti di partenza:
-non vi sono dubbi che sia Mozart che Schikaneder fossero, entrambi, massoni, ed in particolare Mozart fu iniziato alla massoneria nella loggia “Alla beneficienza” (“Zur Wohlthatigkeit”) il 14 dicembre 1784 e – per quanto si sa – ebbe una regolare vita massonica divenendo maestro già nel mese di aprile del 1785, mentre Schikaneder era sì massone, ma poco assiduo ai lavori di loggia così da essere spesso redarguito (anche per la sua condotta di vita non irreprensibile): è quindi logico che l’appartenenza massonica abbia condizionato l’opera del librettista tanto quanto quella del musicista, soprattutto perché entrambi erano massoni e conoscevano la loro rispettiva situazione di iniziati;
-siccome l’opera si compone di due parti artistiche strettamente connesse, e cioè libretto e musica, e siccome lo scopo cui tende l’opera stessa è la rappresentazione di una storia mediante l’esecuzione del dramma e della musica, è di tutta evidenza che un primo livello di percezione non può che essere quello immediato di chi assiste alla rappresentazione dell’opera e quindi riceve da ciò che vede e sente provenire dal palcoscenico alcune sollecitazioni sul piano della storia rappresentata e degli insegnamenti che se ne possono trarre; in sostanza, la parte “visibile” è quella che tutti possiamo comprendere e che spesso viene sussunta sotto la definizione di “favola” che talvolta viene attribuita a quest’opera (non deve dimenticarsi però da un lato che fabula è il temine che indica la storia narrata in sede teatrale, e che dall’altro lato solo successivamente descrive una storia di carattere magico o surreale o infantile);
-sussistono però altri livelli e soprattutto linguaggi nei quali possono essere nascoste delle realtà, dei simboli; sussistono livelli e linguaggi nei quali lo stesso compositore ci dice qualcosa, evoca qualcosa che abbia una sua attinenza più o meno evidente con il mondo massonico al quale apparteneva, in modo indiretto o comunque non percettibile immediatamente.
Per quanto riguarda la parte drammaturgica, è palese che nel libretto vi sono diverse evidenti tracce della appartenenza massonica del librettista e del compositore, essendo certo che abbiano operato a quattro mani, nonché evidenti messaggi connessi con gli ideali libero muratori che forse si volevano (dichiaratamente) instillare negli ascoltatori dell’opera.
E’ quindi per questa ragione che chiunque abbia avuto una qualche familiarità (per qualsiasi motivo: per studio della storia della nostra Istituzione, o magari anche per sentito dire, o per dati di comune conoscenza) con qualche concetto massonico, ci dirà che nel secondo atto dell’opera Tamino subisce una vera e propria iniziazione alla massoneria mediante le prove che ancora oggi accompagnano questo fondamentale rito; che Sarastro è un Maestro Venerabile, cui fanno da assistenti i due comprimari (un tenore ed un basso che cantano una stessa parte musicale a distanza di un’ottava) che a loro volta sono assimilabili ai due dignitari di loggia, il primo e secondo sorvegliante, che lo coadiuvano nella scena dell’iniziazione.
Per non parlare poi dell’esaltazione della differenza fra Tamino, l’uomo illuminato che raggiunge la conoscenza e viene iniziato (l’uomo libero e di buoni costumi che diviene massone), e Papageno, l’essere stolto (che lo accompagna nel viaggio iniziatico che però non concluderà) al quale invece basterà una Papagena per appagare gli istinti naturali (procreare, mangiare e bere) e vivere felice (il profano privo delle necessarie qualificazioni e che non diventerà mai massone); la lotta fra il bene e il male come pure la dualità fra il giorno e la notte ed anche la differenza fra apparenza e realtà che si percepisce nella trasformazione (o meglio: l’esatta percezione che emerge solo nel corso dell’opera) del ruolo dei due antagonisti (Sarastro e la Regina della Notte) da “buoni” in “cattivi” e viceversa; più volte si parla espressamente di “iniziati” (“Geweithen”), da ultimo nel coro che conclude l’opera, insomma, senza voler ripetere cose note, sono numerosi i punti in cui in modo più o meno esplicito si rappresentano concetti massonici nella rappresentazione del Flauto Magico.
Volendo applicare al Flauto Magico le fondamentali categorie di exoterismo ed esoterismo, possiamo forse dire – anche se mi rendo conto che l’affermazione può sembrare un po’ forzata, vista la relativa complessità della trama dell’opera e le moltissime sollecitazioni che offre, ma pur sempre molto vicina alla realtà dell’opera dove quel che è scritto è scritto apertamente ed in modo palese viene rappresentato – che il libretto del Flauto Magico e la sua rappresentazione teatrale sono la parte exoterica di questa produzione artistica; quello che avviene e viene detto e fatto sul palcoscenico si può leggere – con la dovuta attenzione anche ai particolari, e con la dovuta preparazione culturale – in maniera diretta ed immediata, ivi compresa la scena dell’iniziazione e della precedente tegolatura di Tamino e Papageno, che sono poste in scena senza veli e senza mascheramenti; fino alla conclusione corale nella quale si inneggia, una volta che il solo Tamino (principe – e quindi nobile e possessore di quelle qualificazioni indispensabili per l’accesso al nostro Ordine – di buoni costumi e di sufficiente intelligenza) e la sua compagna Pamina sono stati ammessi fra gli “eletti”, alla “bellezza” (“Schoenheit”) e la “forza/fermezza” (“Weisheit”), parole che abbiamo appena sentito risuonare in questo tempio all’accensione delle tre luci.
Papageno, lo sciocco personaggio che si accontenta di una vita materiale, non supererà le prove e rimarrà profano, anche se ingenuamente felice del suo stato.
Certo: non si spiega al pubblico che quello che ha visto viene praticato in segreto nelle logge massoniche viennesi dell’epoca, ma in realtà si pone in scena – senza alcuna mediazione simbolica – la realtà dell’iniziazione ed anche lo scopo del viaggio iniziatico (la ricerca della luce), dando piena leggibilità al tutto.
Ma la parte musicale, quella più propriamente mozartiana, al di là dell’indiscutibile bellezza e piacevolezza di molte arie, cori e brani strumentali, contiene essa stessa al suo interno elementi che si possano far derivare da concetti o messaggi massonici? Cosa c’è di massonico nella partitura del Flauto Magico?
Prima di parlare di questo argomento, servono due premesse:
-la musica è certamente un’arte ma essa, nella tradizione europea e quelle che ne sono derivate si serve di (ed in un certo senso è) un linguaggio codificato in modo tecnico, mediante le regole dell’armonia, del contrappunto e della composizione in genere, e con un proprio codice di scrittura, mediante il quale si possono esprimere in primo luogo moltissime emozioni e sentimenti, e questo non vale solo per la musica “pop” (come a volte si tenta di accreditare in una ingenua visione “romantica” e falsamente “rivoluzionaria” della storia della musica), ma anche e soprattutto per quella classica/lirica: questo tipo di musica dispone infatti di una tavolozza musicale e di capacità tecniche espressive infinitamente più mature ed in grado di rappresentare la realtà anche emotiva, con ricchezza di strumenti e metodiche compositive che sono estremamente raffinate rispetto all’armamentario tipico di molta musica contemporanea, basata su una visione molto semplificata della composizione; tipico esempio le moltissime canzoni basate sul semplice “giro di do” che già i compositori utilizzavano dal sei/settecento quale chiusura “di maniera” di arie o altre composizioni perché rappresenta uno degli artifici più semplici e banali della composizione.
La musica ispira emozioni e sentimenti: per esempio un alto senso di appartenenza (inni religiosi o civili); sentimenti di tristezza o di malinconia (arie d’opera o canzoni); un brano strumentale può rasserenarci o turbarci.
La musica può anche “descrivere”: se Vivaldi musicava un testo poetico che diede luogo poi alle famose “Stagioni”, con finalità descrittive delle caratteristiche appunto dei vari tempi dell’anno, nell’ottocento nasce e si sviluppa una forma musicale definita “poema sinfonico” che serve appunto al compositore per potere descrivere musicalmente (e quindi senza l’ausilio di testi o magari di canto – trasposizione musicale di un testo) una realtà, un paese, una storia. E gli esempi potrebbero continuare all’infinito.
-molto si è discusso sul concetto di “musica massonica” (se esista, quali caratteristiche presenti), per concludere che se ne sa molto poco o quasi niente. Fermo restando che Mozart è stato – tra l’altro – autore di una “Cantata funebre massonica” (e quindi di una composizione destinata ad una particolare ricorrenza massonica) e d’altra musica d’occasione libero muratoria, se da un lato si guarda al numero di compositori massoni esistiti nella storia (coetanei di Mozart anche Haydn e Salieri, ma forse anche Bach in precedenza, e poi Spontini, Cherubini, Paganini, e successivamente altri grandi come Jan Sibelius ed alcuni maestri del jazz), i cui generi ed i cui stili – come logico viste le loro specifiche collocazioni temporali – sono molto diversi fra loro, e dall’altro si tenta di trovare un “trait d’union” nella comune fratellanza libero muratoria, difficilmente si riuscirà a trovare un collegamento fra Bach e Sibelius, se non nel loro genio, e questo perché probabilmente non esiste musica massonica tout court; al contrario può esistere musica “per” la massoneria, cioè musica destinata ad un utilizzo nel tempio o nelle agapi che peraltro è andata smarrita anche in considerazione della segretezza dei lavori rituali e della quale si sa che – essendo destinata ad esecuzioni non professionali effettuate dai Fratelli – era di carattere molto semplice e poco articolato,
più un’occasione per fraternizzare cantando che per creare opere d’arte; può esistere musica celebrativa di concetti massonici; può esistere musica “dei” massoni (cioè composta da musicisti iniziati).
Ciò peraltro non esclude che sia possibile trovare tracce del pensiero libero muratorio in musica, in ciascun compositore, secondo le sue peculiarità.
Ed è proprio quello di cui vorrei darvi testimonianza diretta sulla scorta della illuminazione (nel senso che indicavo sopra: lettura della realtà “alla luce” dell’iniziazione) che ha guidato l’ascolto della Ouverture del Flauto Magico dopo la mia iniziazione.
Devo anzi dire che più che una intenzionale analisi del brano, è stato il brano stesso a “dirmi” ciò che sto per esternare.
Innanzitutto vorrei farvi notare la tonalità con la quale si apre l’Ouverture, tonalità nella quale – peraltro – si conclude anche l’opera con l’ultimo intervento del coro.
La tonalità di un brano, almeno fino a quando la musica è stata “tonale” (e cioè fino al novecento ed all’avvento della dodecafonia), rappresenta una scelta essenziale del compositore per la riuscita del brano che si accinge a comporre, e questo per varie ragioni: in primo luogo, perché dovendo sempre necessariamente comporre per strumenti o voci che sono dotati di diverse estensioni, alcune tonalità si prestano meglio di altre ad essere adattate all’estensione (strumentale o vocale) del soggetto o del complesso di esecutori che dovrà eseguire il brano; poi – e forse, soprattutto – perché la tonalità determina un “colore” o un carattere particolare alla composizione.
Ad ogni buon conto, nell’individuare la tonalità d’inizio (e di fine, lo ripeto) del Flauto Magico, Mozart sembrerebbe averci palesemente strizzato l’occhio poiché la tonalità scelta è il mi bemolle maggiore.
Nella notazione della musica tonale, è necessario scrivere in chiave, all’inizio di ogni rigo musicale, mediante i diesis ed i bemolle le note che sono costantemente “alterate” per poter dare luogo scala musicale da cui deriva la tonalità (in modo tale che l’esecutore sappia sempre quali sono le note da eseguirsi con un’alterazione: c.d. “armatura” della tonalità).
Nella tonalità di mi bemolle maggiore si ha che su ogni pentagramma, vicino alla chiave vengano messi tre bemolli rispettivamente: il primo sul si, il secondo sul mi, il terzo sul la, che sono le note che devono essere eseguite sempre con queste alterazioni tipiche della tonalità scelta, così componendo un triangolo di bemolli [v. immagine che segue] che in tal modo consacra ogni partitura, ogni spartito, ogni parte strumentale di quel brano con uno dei segni principali della libera muratoria (i tre punti posti a triangolo), che compare ovunque, a cominciare dal quadro di loggia in grado di apprendista per finire con ogni manifestazione rituale.

Ciò equivale a dire, in buona sostanza, che la “chiave di lettura” di quanto Mozart scrive è rappresentata da quei tre bemolli, cioè quei tre puntini posti a triangolo. L’armatura dello spartito ci fornisce la “chiave di lettura” dell’intero brano (e se vogliamo dell’intera opera), ed è una chiave palesemente libero muratoria.
E non è casuale che la tonalità con cui l’opera inizia è la stessa con cui termina: in una visione ciclica quale quella dei lavori rituali (che si aprono sempre a mezzogiorno e si concludono sempre a mezzanotte, almeno in grado di apprendista), non è secondario che ciò che inizia in mi bemolle maggiore termini pure in mi bemolle maggiore. Verrebbe quasi da dire, alla fine dell’opera, che “Tutto è giusto e perfetto”.
Di certo un’altra caratteristica di questa scelta è la sua universalità, il suo imporsi erga omnes: tutti coloro che prendono parte all’esecuzione dell’opera saranno costretti a vivere per un po’ nella dimensione massonica – pur senza saperlo – poiché quei tre bemolli che formano quel triangolo condizioneranno la loro esecuzione dei brani e quindi la realtà che andranno a produrre.
Quello che potrebbe sembrare un mero artificio grafico, forse indizio apparente di un divertissement piuttosto che di un reale contenuto, è in realtà una vera e propria chiave di lettura, un ambiente all’interno del quale si sviluppa l’intera musica scritta in quella tonalità: in sostanza, la tonalità rappresenta il mondo all’interno del quale viene eseguita la composizione, o meglio una sua porzione riportata nello spartito, esattamente come il Tempio altro non è che la porzione dell’universo delimitata dal rettangolo squadrato all’inizio della tornata, e dai punti cardinali.
Quindi, la scelta del mi bemolle maggiore tutto può sembrare tranne che casuale: se da profano non mi sarei neppure posto il problema del sapere perché mi bemolle maggiore e non re maggiore o do maggiore o sol minore (se non attribuendo la scelta a ragioni puramente estetiche), da iniziato non posso viceversa fare a meno di ritenere voluta ed altamente significativa questa scelta mozartiana.
La partitura si apre con alcuni forti accordi, di cui do qui seguito la trascrizione pianistica [v. immagine che segue] e che vorrei ascoltare con voi:


Posso certamente dire che da profano ritenevo già che questi tre accordi evocassero la sensazione dell’“apertura” di un qualcosa, grazie al carattere ascendente della nota acuta che sale dal mib al sol e poi al sib, ed al carattere discendente del basso (che passa dal mib al do al sol), che quasi disegnando delle linee immaginarie (congiungendo le note estreme degli accordi, in acuto come nel grave), così sembrano alludere appunto a qualcosa che si allarga nello spazio, appunto aprendosi; e banalmente, trattandosi di brano che si denomina talvolta “Sinfonia”, talaltra “Ouverture”, trovavo la cosa molto normale e naturale.
Quasi lo “schiudersi” della musica quale metafora dell’inizio di una storia, quella rappresentata sul palcoscenico.
Ebbene, se probabilmente il concetto di “apertura” era corretto, del tutto sbagliata era l’interpretazione del cosa andava ad evocarsi: non la storia rappresentata, il sipario o quant’altro, ma …… un tempio massonico, o meglio: la sua personificazione nelle tre luci della Loggia.
Solo dopo l’iniziazione e la frequentazione del nostro tempio durante i lavori dell’officina ho veramente capito cosa indicavano quei tre accordi iniziali mozartiani.
Essi – a mio giudizio – indicano distintamente l’oriente, l’occidente ed il meridione ove prendono posto il M:.V:., il primo ed il secondo sorvegliante in un tempio che, come tutti noi sappiamo, è basato sull’asse Oriente/Occidente, e più di una volta mi è capitato, ascoltando l’inizio di questo brano, di veder materializzare nella mia mente l’immagine esatta del nostro tempio.
Innanzitutto dobbiamo dire che gli accordi, se tralasciamo le ripetizioni in levare e le pause su cui meglio appresso, sono tre, ed il numero – che è pieno di significati nella nostra Istituzione – non può non richiamare all’attenzione la coincidenza con le tre luci della loggia, cioè appunto il M:.V:., il primo ed il secondo sorvegliante. Non solo: ma la ritmica dei tre accordi è tale che il primo è semplicemente affermato (poiché è il principio, ciò da cui tutto inizia, così come il M:.V:., dall’Oriente, irradia la loggia con la sua scienza muratoria esattamente “Come il sole apparendo ad Oriente per dare inizio al giorno, illumina la terra”); i due accordi successivi sono invece preceduti da un levare, che è in sostanza la prosecuzione della musica dall’accordo precedente al successivo: quasi un ribadire che il primo sorvegliante riceve la sua forza dal M:.V:. che lo precede, ed il secondo sorvegliante dal primo.
Solo il caso di osservare che gli accordi, in tale maniera, sono tre ma anche cinque (cioè i tre principali più i due in levare), e che se aggiungiamo al conteggio anche le due pause fra i tre accordi, otteniamo sette scansioni successive di musica e silenzio: si tratta di altri due numeri carichi di significato nella nostra istituzione, che non vengono rilevati e non sono stati messi da Mozart a caso nello spartito, ma sono ricavati osservando lo spartito con tre distinti ed esatti criteri di lettura come nella figura che segue (ed aggiungo che mediante il conteggio delle pause si realizza anche l’alternanza di elementi opposti e complementari – suono/silenzio –, simboleggiata, tra l’altro, dal pavimento a scacchi bianchi e neri che possiamo vedere anche nel nostro Tempio).


(a)criterio armonico puro; (b)criterio misto armonico/ritmico; (c)criterio ritmico

Ma non si tratta soltanto di una questione ritmica: il legame strettissimo e significativo è anche – e soprattutto – armonico e deriva dalla successione dei tre accordi che sono i seguenti:
Mib maggiore; do minore; mib maggiore (rivolto).
Ed infatti, un asse chiarissimo unisce gli accordi di mi bemolle maggiore e do minore (il primo ed il secondo della serie dei tre): un asse in cui i due accordi si pongono in giustapposizione l’uno all’altro, agli estremi dell’asse immaginario, perché quei due accordi sono da un lato espressione della stessa scala (che è appunto quella di mi bemolle), e quindi partecipano della stessa realtà, però ne rappresentano le due (opposte) espressioni tonali dall’altro lato. Secondo il linguaggio musicale, il “do minore” è la c.d. “relativa minore” del mi bemolle maggiore: stessa scala, ma “modi” opposti. Ogni scala musicale, infatti, prende il nome dalla prima nota (delle sette note complessive, più le cinque alterazioni) che la compone, e dà luogo a due distinte tonalità, la tonalità maggiore e la relativa minore secondo un sistema per cui la relativa minore è appunto la scala che inizia un tono e mezzo sotto (così avremo che la relativa minore del “do maggiore” è il “la minore”; del “re maggiore” è il “si minore”; del “mi bemolle maggiore” è appunto il “do minore” e via di questo passo).
In identica maniera, il M:.V:. ed il Primo Sorvegliante siedono l’uno ad Oriente e l’altro ad Occidente, quindi pur sempre nella stessa linea: essi sono espressioni della stessa realtà (il sole che illumina la terra, o meglio il percorso descritto dal sole nel corso della giornata), siedono l’uno “contro” l’altro sull’asse Oriente/Occidente che informa il tempio, rappresentano i “confini” del tempio massonico e la linea principale sulla quale si basa tutta la tecnica edificatoria.
Viceversa, il terzo accordo (mi bemolle maggiore-rivolto) è pur sempre un accordo di mi bemolle maggiore, ma in esso le note che risuonano contemporaneamente non sono disposte nel consueto ordine (prima/terza/quinta) che costituisce la c.d. “triade” perfetta, ma in un ordine diverso, nel quale al basso risuona la terza maggiore. Questa particolare disposizione delle note conferisce all’accordo una peculiarità che mi consente di affermare che in sostanza si tratta soltanto di un “diverso punto di vista” rispetto all’accordo principale (che è pur sempre quello di mi bemolle maggiore) che rappresenta l’asse Oriente/Occidente: cosa di diverso, quindi, rispetto alla posizione nel tempio del Secondo Sorvegliante che osserva – da un diverso punto di vista, ad esso perpendicolare perché basato sull’asse Settentrione/Meridione – l’asse Oriente /Occidente formato dal M:.V:. e dal Primo Sorvegliante?
Lo schema di lettura può essere quello di cui alla figura che segue:

N

W (Do minore)———————————————————( Mi b maggiore)

I
I

( Mi b rivolto)
S

Ed ancora, va rilevato che il basso armonico del terzo accordo si posiziona sul sol, che rappresenta, nella scala di mi bemolle maggiore la “terza maggiore” (cioè la terza nota della scala): pertanto è la stessa posizione della nota nella scala a dirci che si riferisce al “terzo” dignitario della loggia, cioè il secondo sorvegliante. Sia la ritmica (terzo accordo) che l’armonia (terza maggiore) confermano questa lettura.
E cosa dire, poi, sul fatto che tutti i tre accordi, di fatto, nascono dalla stessa scala (esattamente come i tre dignitari di loggia partecipano dello stesso architettonico lavoro)?
Dopo i tre accordi, il brano si sviluppa prendendo il movimento armonico proprio dal terzo accordo: partendo dal rivolto con base alla terza maggiore, si passa alla quarta (la bemolle) e dopo alcune battute – nelle quali, peraltro, sembra di assistere ad una immaginaria squadratura del tempio – si giunge alla conclusione dell’episodio iniziale, sul quale vorrei conclusivamente osservare che il tempo lento di “Adagio” sembra alludere alla dimensione sospesa del tempo di loggia, e qui … un’altra sorpresa: inizia una fuga molto veloce e concitata (in tempo di “allegro”), ricca di controtempi o meglio di accenti che sono su note in controtempo.

[Ascolto musicale]

Nel film “Amadeus” di Milos Forman (film molto bello anche se quasi totalmente privo di una reale rispondenza storica rispetto alle vicende narrate, a cominciare dalla tesi – assolutamente di fantasia ed originata da un lavoro letterario di Aleksander Puskin del 1830 – che Mozart sia stato assassinato da Antonio Salieri) esiste una sequenza dedicata alla composizione di questa “Ouverture”, nella quale si associa questa fuga concitata con le immagini di un Mozart ubriaco che si prende gioco del padre e partecipa ad una festa molto vivace: ebbene bisogna riconoscere che in questo, probabilmente, il regista del film non è andato a mio giudizio molto lontano dalla realtà perchè, Mozart, dopo averci dato l’immagine in musica di un tempio massonico, che rappresenta l’inizio dell’opera (ed anche la sua conclusione, in modo ancora più plasticamente evidente), ci getta senza alcun preavviso nello schizofrenico mondo profano, fatto di uomini che non possiedono la luce, con un tema di fuga (forma adottata molto opportunamente perché evoca già dallo stesso nome – e dalle caratteristiche – il concetto di un inseguimento senza fine: come il vano correre ed agitarsi del profano distratto dai metalli ed inconsapevole dell’esistenza della luce) alquanto scomposto ed irrazionale e – come già detto – ricco di accenti che, per usare una terminologia spicciola e non tecnica, sono sulle note “sbagliate” secondo il normale andamento ritmico della frase musicale.

Il mondo profano d’altronde è quello dove manca la luce, dove si va ma senza sapere dove (e perché), dove si avanza e si indietreggia senza alcuna logica (come pare proprio suggerito dalla seconda parte del soggetto musicale là dove si ripete due volte la stessa parte del tema: quasi un continuo ritornare sui propri passi, muoversi tanto rimanendo sempre fermi senza progredire mai).

Non va però dimenticato che le linee della fuga (quattro, sostanzialmente, come sempre nelle fughe classiche) sono autonome (poiché ognuna è indipendente dalle altre) ma sono pur sempre tutte coordinate dal compositore: analogamente a ciò che accade nel mondo profano, ove l’uomo stolto si agita, corre e si dimena, ma il G:.A:.D:.U:., ciononostante, realizza il suo disegno (ordo ab chao): la differenza fra il mondo del massone e quello profano è che il massone partecipa consapevolmente (nei limiti della sua scienza muratoria) all’opera del G:.A:.D:.U:. (di qui la

successione armonica “giusta e perfetta” dei tre accordi iniziali), mentre il profano no, viene caso mai “strumentalizzato”.
Questo sembra dirci, a mio giudizio, la fuga: la fuga, infatti, è struttura musicale molto rigida e tecnica, paragonabile all’opera ed all’attività del G:.A:.D:.U:., all’interno della quale si sviluppano le passioni e le irrazionalità proprie del mondo profano ben espresse dal peculiare tema musicale adottato.

E questa situazione prosegue fino alla conclusione di questa sezione, e qui si ritorna nuovamente alla “luce”: alla fine della fuga infatti si sentono risuonare per tre volte ciascuno tre accordi (diversi da quelli iniziali, perché diverso ne è il loro significato, stavolta): tre accordi che stanno a ricordare l’esistenza di una diversa realtà, ma ricordano anche la “triplice batteria” che ancora oggi riecheggia all’apertura dei lavori di loggia, sia pure in una scansione ritmica che è più simile al rito di altre obbedienze.

Vale solo la pena di segnalare che i tre accordi, tutti nella tonalità di si bemolle maggiore, si susseguono a gruppi di tre ripetizioni ognuno (quindi, in totale, si tratta esattamente di nove pulsazioni armoniche, tante quante quelle di una batteria); che le prime tre ripetizioni sono tutte alla tonica (sib-sib-sib), le successive tre ascendono alla terza maggiore (re-re-re) e le ultime tre ascendono alla quinta maggiore (fa-fa-fa), componendo quindi la perfetta “triade maggiore” (quella cioè che è l’archetipo dell’accordo perfetto e completo, che contiene al suo interno la tonica, la terza e la quinta ed è quindi totalmente autosufficiente, visto che nell’accordo maggiore una quarta nota non potrebbe che essere la ripetizione di una di quelle già presenti).

In sostanza, siamo solo all’inizio dell’opera, abbiamo esaminato poche righe (al massimo pochissime pagine) della partitura e già abbiamo visto evocare – con strumenti puramente musicali/compositivi – gli ufficiali di loggia, un tempio massonico, il mondo profano (almeno quale appare secondo la visione di un iniziato) ed una triplice batteria.

Sappiamo che Mozart è un compositore capace di forme complicatissime (contrariamente alla “vulgata” che lo vuole come un compositore facile e comprensibile, quest’ultima caratteristica, peraltro, non confliggente con quella di una complessità tecnica che non sia fine a se stessa ma tendente ad esprimere altro, come è tipico del vero genio): se continuassimo oltre nell’analisi minuta di questa partitura dovremmo quindi di questo passo trovare tante di quelle tracce, tanti di quegli artifici da poter forse trovare conferma a due assunti che mi sento di proporre alla vostra riflessione, conclusivamente a questo intervento:

-il primo, e cioè che la parte esoterica in un’opera come il Flauto Magico non è – come si potrebbe supporre – nel libretto o comunque nel suo risultato visivo/drammaturgico, ma nella partitura;

-il secondo, e cioè che solo da iniziato è possibile comprendere i segni che il fratello –sono molto emozionato a dirlo, e forse indegno di farlo, ma da affiliato alla libera muratoria universale posso e devo chiamarlo così – W. A. Mozart ha inserito nella sua opera più controversa e che forse rappresenta la maggiore anche se non unica espressione della sua appartenenza alla massoneria.

Ho detto.

R.:L.: Resurrezione 144 all’Oriente di Civitanova. È lo spirito che la anima.
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